Livramento: libertà ad alta quota

domingo, 27 de setembro de 2009
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Mentre la nostra Toyota sta testardamente arrampicandosi lungo la ripida, tortuosa e sassosa strada che in 12 chilometri massacranti porta dal comune di Sao José de Princesa alla comunità nera di Livramento, si percepisce bene come questo quilombo sia potuto sopravvivere nei secoli senza essere mai stato raggiunto dai cacciatori di schiavi fuggitivi. Accoccolato su un altopiano ad una altitudine di 1400 metri, il villaggio ha le caratteristiche tipiche degli insediamenti di montagna con le strade e i campi suddivisi da lunghi muri di pietra, frutto di un lavoro plurisecolare di adattamento ad un ambiente ostile e progressivamente domato e adeguato alle necessità di una comunità obbligata alla quasi totale auto sussistenza alimentare. Si pensa che le origini di Livramento risalgano ad almeno cent’anni prima della proclamazione della Lei Áurea (13 maggio 1888 – abolizione della schiavitù in Brasile). Tuttavia non si conosce la data precisa di arrivo del primo gruppo di schiavi fuggitivi, anche perché fino a tempi recenti esisteva un reciproco e condiviso patto del silenzio come forma di auto protezione. Da allora la comunità si è lentamente sviluppata fino a raggiungere, verso la metà del secolo scorso, una popolazione superiore alle cinquecento persone. Il quasi totale isolamento, a lungo perseguito come forma di difesa, ha fatto sì che fossero conservati intatti alcuni tratti specifici della cultura nera, a cominciare da alcune tipiche forme di danza come il coco e il reisado.







Oggi purtroppo, a causa delle continue ondate di emigrazione verso le città, il quilombo di Livramento si è ridotto ad una quarantina di famiglie che lottano per la sopravvivenza ma che, grazie all’azione di persone come Paula e Lucia (insegnanti della locale scuola), stanno anche riscoprendo il valore del proprio passato e della propria cultura. Dal 2 marzo 2007 Livramento è ufficialmente una comunità quilombola riconosciuta dal Governo federale.








Fonseca, dove la fame è nera

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Non ho la minima idea della radice etimologica del nome Fonseca ma, se per caso dovesse derivare da fonte-seca (sorgente secca) niente sarebbe piú corrispondente alla realtá. Perlomeno di quella della comunitá quilombola che porta questo nome. Arrivati nella cittadina di Manaíra, dopo una lunga traversata montagnosa su strada sterrata, ci mettiamo in testa di rintracciare la comunitá di Fonseca. A dir la veritá abbiamo giá un appuntamento per la tarda mattinata con la comunitá di Livramento, ma non tentare con Fonseca sarebbe un delitto: in fin dei conti non é poi cosí facile arrivare da queste parti e l’occasione non va sprecata. Domandiamo ad almeno quattro persone diverse se abbiano mai sentito parlare di una comunitá di afrodiscendenti e di come sia la strada per arrivarci. Quattro risposte non solo differenti ma addirittura opposte. In poche parole nessuno ha un’idea piú o meno chiara di dove mai siano andati a ficcarsi questi neri. Recuperato il cellulare di Luis, nostro referente nella comunitá, facciamo un non troppo convinto tentativo di metterci in contatto. E il miracolo avviene. Come poi potremo constatare, la comunitá si trova in cima a una collina proprio sotto una grossa antenna telefonica rendendo cosí possibili i collegamenti via cellulare. Luis ci spiega che se abbiamo un pó di coraggio e molta incoscienza una specie di strada per arrivarci ci sarebbe. “Volete provare? Contattate mia nuora, che vive in Manaíra, e lei vi accompagnerá”. La strada é poco piú di una mulattiera, ma la nostra Toyota sfodera tutta la sua rustica potenza e tra vigorosi sballottamenti in una quarantina di minuti riusciamo a percorrere i circa quattro chilometri che separano la comunitá dal centro abitato. Sembra di essere in un altro mondo e in un altro tempo. Tutto é secco e arido, la terra cotta e riarsa da un sole cocente. Pare perfino impensabile che durante la stagione delle piogge riescano a coltivare qualcosa. Quasi nulla a dir la veritá. Fagioli, granoturco, qualche zucca e poco altro. Quando possono (= quando arriva la pensione dei vecchi) scendono in cittá a comprare farina di grano e di mandioca. E poi? chiediamo. E poi é fame, fame nera! Mentre il vecchio Luis ci parla dei problemi piú urgenti, arrivano vari membri della comunitá che, nel frattempo, sono stati avvisati della nostra venuta. Nella penombra della povera chiesa Francimar e Luis raccontano gli ultimi aggiornamenti sulle iniziative a favore delle comunitá quilombola. La gente ascolta in silenzio, poi si fa coraggio e comincia a parlare: un rosario di sofferenze che conosce solo le decine dei misteri dolorosi. Ripartiamo con una stretta al cuore ripromettendoci, appena tornati a João Pessoa, di organizzare una spedizione di viveri. Non sará la soluzione del problema, lo sappiamo bene, ma é il minimo che possiamo fare.











Strade del sertão

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Ti ritrovi, a volte, nei posti più impensabili e differenti per continente, latitudine e clima. Eppure, per non so quale suggestione, ti sembra di esserci già passato e di aver provato più o meno le stesse sensazioni. In realtà, al di là delle possibili somiglianze, è la tua anima che si ritrova, che scava ricordi persi nell’inconscio, che ricostruisce convergenze improbabili. Insomma non è il luogo che stai attraversando a suggerire somiglianze antiche, ma tu viandante nel tempo e nello spazio a fondere vecchie e nuove sensazioni in un nuovo amalgama. È quello che mi sta succedendo oggi, mentre con Luís e Francimar sto percorrendo la pista sterrata che unisce Diamante a Manaíra scavalcando la serie di assolate e assetate montagne che divide trasversalmente il sertão della Paraíba. Non era così la strada che saliva al monastero di Debre Damo in Etiopia? O quella che portava al monastero di Tatev in Armenia? O, ancor di più, quello sterrato arido che si arrampicava su su fino all’antica chiesa georgiana di Iþhan alle pendici del Caucaso turco? Mi rendo conto di quanto sia improbabile il cocktail di sensazioni che sto lentamente sorseggiando. In fin dei conti non cè ragione alcuna che mi spinga a rifiutare accostamenti tanto virtuali quanto concreti, in un gioco di illusioni mutanti come quelle di uno stroboscopio. Un sapore, dolce e aspro nello stesso tempo, che lascia tracce persistenti proponendo gusti nuovi ma dalle caratteristiche antiche. Così mentre Luis fa avanzare sapientemente la vecchia Toyota, lascio che gli occhi e la mente contemplino il panorama sempre nuovo e sempre uguale che ad ogni curva si para davanti agli occhi. Terra di nessuno, se non fosse per alcune scheletriche case rurali, per gli improvvisi laghetti azzurri fino all’impossibile, per le ampie macchie di caatinga secca ma pronta a rinascere alla prima pioggia. Terra immobile se non fosse per l’impolverato camioncino incrociato nel mezzo del cammino (l’unico mezzo a motore, oltre a due motociclette, in due ore di viaggio), un uomo a cavallo, una donna con somaro, ambedue stracarichi, due bambini a dorso di asino e un fanciullo carico di legna. Tutte qui le tracce di umanità in questa landa desolata. Finalmente, dopo una sessantina di chilometri, eccoci al piccolo borgo di Manaíra. È giorno di mercato e la piazza pullula di bancarelle e di persone. Da dove sbuchi tutta questa gente, Dio solo lo sa!














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