E’ in questo clima di violenza che entrano in scena Luis, Francimar e Valdenia. Venuti a conoscenza della situazione viene fatta una prima visita in loco e appare subito chiaro che ci sono tutte le condizioni per inquadrare la comunità come quilombola. Comincia così il processo di auto riconoscimento fino a giungere alla certificazione da parte della Fondazione Culturale Palmares. Da questo momento il processo giudiziario diventa federale togliendolo così dai possibili inquinamenti che tanto caratterizzano la giustizia brasiliana di base.
Ovviamente le cose vanno per le lunghe ma le famiglie quilombolas adesso che conoscono i loro diritti hanno ripreso coraggio cominciando a piantare in parti del latifondo fino a ieri considerate inaccessibili. Le proprietarie, imbevute della loro antica mentalità, non hanno ancora capito che la musica è cambiata e continuano nella loro strategia intimidatoria.
Oggi stesso al momento del nostro arrivo abbiamo trovato un contadino, dipendente della proprietà, che stava tagliando erba e cavando mandioca in un terreno coltivato da seu Juca. Ho preso la mia macchina fotografica e ho scattato qualche foto dicendo che le avrei consegnate al giudice. Il povero disgraziato, impaurito dalle possibili conseguenze, ha subito smesso dicendo che non era colpa sua e che era stato mandato dalle padrone. Archiviato l’episodio è arrivato finalmente il momento emozionante della consegna delle 700 piante. A dir la verità non avrebbero mai potuto permettersi di acquistare un simile quantitativo, ma grazie all’intervento di Luis questo è stato possibile. Funziona così: in un quaderno viene annotato il numero di piante dato ad ogni famiglia. Quando da qui a due anni le piante cominceranno a produrre, situazione finanziaria permettendo, ognuno inizierà a restituire il piccolo capitale investito (tanto per avere un’idea ogni pianta è costata meno di un euro). Questi alberi saranno piantati in punti strategici del latifondo: una forma chiara e esplicita che da lì nessuno ha intenzione di andarsene. Non si tratta solo di un “investimento” economico ma soprattutto umano: una comunità che ritorna a vivere sognando un futuro migliore.
Il contadino "invasore" lascia il terreno