La creta è "femmina"

quinta-feira, 24 de fevereiro de 2005
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Giovedì 24 marzo partiamo per l’interno e ci dirigiamo verso Campina Grande a circa 120 km da Joao Pessoa. Attraversata l’aspra Sierra, sotto un temporale che preannuncia la tanto agognata stagione delle piogge, arriviamo, dopo 270 km all’antica cittadina di Santa Luzia. Al pomeriggio, in un bairro di periferia, incontriamo una delle comunità di neri scesi una quindicina di anni fa dal Talhado. Qui hanno costruito una piccola ceramica dove lavorano una quindicina di donne. Lavorano la creta con l'aiuto delle sole mani cuocendo poi i manufatti in un rudimentale forno a legna.

"Una volta - racconta Maria Rita - questa attività la facevamo su nel Talhado, ma la vita lassù era molto difficile e dura. E ancora più difficile era trasportare a valle i prodotti perchè la strada, se strada si poteva chiamare, era lunga e accidentata. Siamo stati costretti a scendere soprattutto a causa della siccità e della fame". "Sul Talhado - continua Maria do Céu, figlia di Maria Rita - eravamo almeno sette/ottocento famiglie, ma abbiamo dovuto per forza scendere in città; ne saranno rimaste al massimo una quarantina. Non avevamo né terra né casa. Nel 93/94 abbiamo costruito questo impianto e la situazione è un po’ migliorata. Qui c’è una parte del tagliado, tutte famiglie nere, ma ormai abbiamo perso un po’ i legami con gli altri che sono sparsi per i vari rioni. Salvo un uomo qui siamo tutte donne a lavorare. Chi è che va a prendere la legna nel bosco? Le donne. Chi è che carica il camion? Sono le donne. Chi accende il forno e ci mette la legna? Le donne. Siamo donne lottatrici. Gli uomini generalmente se ne stanno in casa nell’amaca mentre le donne lavorano". Nella ceramica lavora da poche settimane anche Valeska, una ragazza di 15 anni, mamma di Rita di Cascia, la bambina avuta dieci mesi fa: "Questo lavoro è duro, bisogna schiacciare la creta con il bastone, poi bagnarla e impastarla, modellarla e lucidarla fino a cuocerla per arrivare al prodotto finale. Non abbiamo assistenza medica e allora anche donne anziane come Maria di Lourdes devono continuare a lavorare. A lavorare ho cominciato da poco ma non ho alternative se voglio vivere. Sono una donna guerriera e voglio continuare questo lavoro perché, anche se è duro, mi piace. La creta è un buon elemento, è bello lavorarla e modellarla con le tue mani. Qui siamo tutti neri e la gente ci disprezza per il nostro colore e perchè siamo sporchi di creta. Ho sofferto molto da bambina quando venivo additata e insultata per il colore della mia pelle. Ma adesso sono cosciente di essere nera e ne vado orgogliosa. Combatto perchè le cose cambino, anche se so che la strada sarà molto lunga e molto dura". Circondata da uno stuolo di bambini si sta riposando Maria di Lourdes e vuole a tutti i costi dire la sua: "Ho 73 anni, non so nemmeno quanti nipoti ho. Ho 10 figli e questi sono tutti miei nipoti. Sono scesa dalla montagna negli anni 90 a causa della fame. Certo che se fossi più giovane e ci fossero migliori condizioni di vita ci tornerei sulla mia montagna. Sono vecchia e stanca ma devo continuare a lavorare per me e per i miei nipoti. Faccio almeno 10 ceramiche al giorno e guadagno circa 25 reais a settimana. Per fortuna ho la pensione e questa serve per tutta la famiglia. Sono nera perché sono figlia di neri e mi piace essere nera. Spero che i miei nipoti riescano a studiare e a fare una vita migliore e che poi mi allevino come io li ho allevati". Luiz si ferma a lungo a discutere con Maria do Céu dei vari problemi della comunità e di come portare avanti una serie di progetti iniziati durante le altre visite. Poi riprendiamo la nostra macchina e ci rimettiamo in cammino per Alagoa Grande dove potremo finalmente riposarci un po' prima di riprendere gli incontri con altre realtà.

Combattere per la propria terra

terça-feira, 22 de fevereiro de 2005
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L’Engenho de Bom Fim é un latifondo che si estende su qualche centinaio di ettari collinosi. Dopo la morte della vecchia fazendera, gli eredi hanno venduto tutto dichiarando che i terreni erano liberi e tacendo completamente sulla presenza di 20 famiglie di contadini neri che vantavano a buon diritto dei diritti sulla terra. Con i nuovi proprietari è cominciato un braccio di ferro pesante: loro recintavano i terreni ed i contadini di notte li abbattevano: “è stato il vento” sostenevano candidamente di fronte alle accuse del padrone. I contadini piantavano la manioca ed i nuovi padroni mandavano gli animali a mangiare le piantine appena spuntate. Una guerra di nervi lunga e logorante. L’aiuto di Luiz, che ha fatto intervenire gli avvocati della commissione statale per la terra, ha portato a qualche risultato, e nonostante la situazione sia ancora in alto mare, i contadini sono decisi più che mai a proseguire nella lotta per la terra. Li incontriamo nella “sala riunioni” all’ombra di un ombroso mango e insieme facciamo il punto della situazione. Ecco le testimonianze dei diretti interessati.

"Il mio nome è Miguel, sono arrivato qui da bambino caricato su un asinello dentro un cesto e quando ho cominciato a capire le cose ho dovuto cominciare a lavorare la campagna. A 21 anni mi sono sposato. Lavoravo nella fazenda e alla sera le mie mani erano scorticate per il lavoro. Lavoravamo la canna da zucchero. Il nostro rapporto con il padrone era di "sujeição" (soggezione), praticamente come fossimo schiavi legati alla terra. L’orario di lavoro superava spesso le 16 ore al giorno. Cadendo sulla canna da zucchero ho perso anche un occhio.
Qui c’erano 60 famiglie, tutti neri. E potevano mandarti via quando volevano. C’era un clima di terrore ed eravamo sempre sotto la minaccia delle armi.
Adesso che abbiamo deciso di riappropriarci della terra speriamo di avere un futuro migliore. Se Dio vuole, io credo che questo si realizzerà. Per me e per i miei compagni".
Josepha Pereira Loura (bionda): "Nel 2002, dopo la morte della vecchia proprietaria, sono subentrati i nuovi padroni e hanno cominciato a minacciare di buttarci fuori da questa terra dove siamo nati e vissuti".
Joseph Faustino: "Tutto è cominciato con l’inganno. I nuovo padroni hanno iniziato a mettere il filo spinato impedendoci di fare qualsiasi lavoro, coltivare la terra, tagliare la legna…abbiamo cominciato a disobbedire e così ci hanno fatti arrestare dalla polizia. Due sono fuggiti, ma io e un altro siamo stati messi in prigione per alcuni giorni fino a che il giudice ci ha rimessi in libertà, grazie all’intervento dell’avvocato della Commissione della terra. Adesso stiamo aspettando la decisione definitiva del giudice e siamo molto fiduciosi di riavere definitivamente la nostra terra. Ma la cosa più importante è che continuiamo a lottare uniti per questo scopo".
José Pedro de Maria detto Zeca Pedro: "I nuovi padroni hanno venduto la terra dicendo che era libera. Ma la terra era nostra perché la stavamo coltivando da sempre. Ci chiudevano con il filo spinato ma noi durante la notte lo abbattevamo. E’ stato il vento, dicevamo. Allora hanno cominciato a minacciarci e ci hanno denunciato. Come ha detto Joseph Faustino due sono stati imprigionati ma altri siamo riusciti a fuggire.
L’aggressione però è continuata. Un giorno ci hanno distrutto con il trattore tutta la piantagione di manioca, adesso di notte ci mandano il bestiame a mangiare le piante piccoline. Ma noi continuiamo a resistere perché siamo 20 famiglie e abbiamo bisogno di lavorare".
Josè (Zé) Fernando: "La terra ce la devono dare perché è nostra. Comunque continuano a minacciarci. Tre notti fa sono arrivati tre capanga, tre pistoleros della fazenda armati di fucili, ma noi siamo riusciti a disarmarli. Abbiamo nascosto le armi sequestrate e, su consiglio dell’avvocato della commissione per la terra, abbiamo deciso di consegnarle al giudice, perché non possiamo fidarci del delegato di polizia, che di sicuro le riconsegnerebbe al proprietario".
I contadini, orgogliosi del loro lavoro, ci fanno visitare le terre coltivate: banane, maracujà, manioca, jaka, pitomba, mango, papaia, canna da zucchero.
Alla fine, dopo un ultimo dibattito, decidono di recuperare le armi sequestrate e incaricano Zè Fernando di portarle al giudice. Ci chiedono di fare da scorta e noi seguiamo su strade sterrate la macchina di Zé Fernando verso la sede del giudice. Speriamo che funzioni.

Matão: alla soglia della sopravvivenza

segunda-feira, 7 de fevereiro de 2005
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Nella tarda mattinata di lunedì 21 marzo arriviamo presso la comunità rurale di Matão che si trova su un pendio arido e ventoso. È costituita da 28 famiglie e ci sono 87 bambini che frequentano la piccola scuola. Vi insegnano due maestri del luogo che hanno potuto studiare grazie alle borse di studio procurate da Luìs. Da allora finalmente viene garantita un discreta istruzione di base.

Qui il problema principale è la mancanza della terra da lavorare per cui la maggioranza degli uomini deve andare lontano a cercare qualcosa da fare. La comunità era allo sbando e abbandonata a se stessa. Adesso, grazie all’intervento di Luìs, alcuni giovani stanno prendendo coscienza e funziona anche un gruppo di donne che stanno cercando di iniziare alcune attività di artigianato.

José (uno dei nuovi professori): "il primo problema del Matão è la siccità, conseguenza della cronica mancanza d’acqua. E questo provoca grandi problemi alla gente e alla terra da coltivare".

Gilmar (maestro): "Il secondo problema è la mancanza di lavoro per cui bisogna andare a cercarlo altrove. Tornando al discorso dell’acqua la notizia positiva è che, grazie all’aiuto di Luìs, siamo stati inseriti anche noi nel progetto “un milione di cisterne” per raccogliere l’acqua piovana e così avremo l’acqua potabile per tutto l’anno.

Per quanto riguarda i giovani alcuni di noi stanno studiando fuori, così potremo avere una prospettiva diversa cominciando a migliorare il posto in cui viviamo".

"Non si tratta di una prospettiva solo personale - aggiunge José - noi dobbiamo emergere insieme alla nostra comunità, fare un cammino insieme. Siamo parte di questa comunità e dobbiamo aiutarla a svilupparsi insieme a noi".

"Un altro aspetto da non dimenticare (Gilmar) è il nostro processo di coscientizzazione. E’ già da tempo che ho coscienza di essere nero e questo è importante. Ho capito che devi valorizzarti per quello che sei, altrimenti non hai identità. Noi non siamo inferiori agli altri, e dobbiamo sempre avere coscienza di questo".

"Ho la certezza che sono nera - rivendica Gilvaneide - questo non mi fa male e non mi sento discriminata. Il mio sogno è di studiare e ottenere qualcosa di meglio più avanti. Per me, per la mia famiglia e per la comunità".

Al dibattito si aggiunge anche la voce di Silvania, una giovane mamma con un grazioso bimbo in braccio: " Nera sono. Sì, è vero, sembro gallega, cioè più chiara, ma io so che il mio sangue è nero, come tutto quello della comunità del Matão. La situazione qui è sempre stata difficile ma, per fortuna, adesso sta cambiando. Grazie al lavoro dell’associazione noi stiamo prendendo coscienza, siamo entrati in contatto con altre realtà e questo ci ha aiutati ad aprire la mente, a capire che bisogna cambiare se stessi se si vuole avere un futuro migliore".

"Ha ragione - aggiunge João, un altro giovane molto attivo nella comunitá - E’ importante l’aiuto che ci viene da fuori, ma il vero cambiamento deve partire da noi. Siamo noi che dobbiamo costruire il nostro futuro".

Ma ecco Zefinha, energica rappresentante del gruppo delle donne. Una testimonianza, la sua, che fa capire come la possibilitá di cambiamento sia reale e di quanto importante sia l'azione svolta da Luís E Francimar. "I problemi sono ancora più grandi per le donne. Qui nessuna donna lavora, nessuna ha un reddito. Ma adesso stiamo alzando la testa, abbiamo capito che bisogna darsi da fare se vogliamo che la situazione cambi. Che so? Qualche forma di artigianato. Stiamo pensando a produrre qualcosa che poi possiamo vendere.

E molto sta cambiando dopo gli incontri che stiamo facendo con le donne. Partecipiamo a incontri fuori, conosciamo altre persone e questo aiuta a cambiare la mentalità. Ma non è che si può far molto se non c’è la terra. Ce la dobbiamo prendere se vogliamo uscire da questa situazione. Non possiamo più continuare a pagare affitti esorbitanti al padrone. Ho lavorato mesi e mesi a raccogliere il cotone senza guadagnare nulla. Lavoravo come gli uomini, anzi di più, eppure mi pagavano di meno perché ero una donna. Ma non potevo farne a meno, avevo troppo bisogno di quei soldi. Io credo nella donna che è dentro di me e sono convinta che le cose stanno già cambiando. Prima di tutto sta cambiando la testa e questo lo devo anche al lavoro di Luis e di Franzimar. Prima eravamo persone che guardavano ma non vedevano, quasi come fossimo ciechi; adesso invece cominciamo a capire".

Lasciamo la comunità del Matão coscienti della difficile situazione che qui le persone devono affrontare ma non senza aver colto la voglia di combattere che anima donne e giovani.

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