Una intervista di Alberto Banal al settimanale Settegiorni - di Elisa Moro

sexta-feira, 9 de janeiro de 2015




A seguire il testo integrale dell'intervista.

Com'è nato il suo impegno umanitario in Brasile? perché proprio quel paese? 
Il primo contatto con il Brasile fu nel 1991. Con mia moglie e mia figlia di 11 anni, andammo a trovare due bambine brasiliane che avevamo adottato a distanza a Nova Barcarena sul Rio delle Amazzoni: volevo che mia figlia vedesse con i suoi occhi cosa voleva dire solidarietà. Feci una tappa anche a São Luís do Maranhão per incontrare Gigetto Zadra, missionario comboniano in terra di frontiera e mio vecchio amico di infanzia. Tornai in Brasile nel 2004, un mese dopo la morte di mia moglie Grazia: un viaggio nella memoria e per portare un contributo di solidarietà ad un centro medico per bambini che avevamo cominciato a sostenere dopo il nostro primo viaggio. Gigetto, invece, non lo trovai a São Luís ma a João Pessoa, capitale dello stato della Paraiba (Nord est del Brasile), dove nel frattempo si era trasferito. Aveva rinunciato alla sua carriera di prete, si era sposato e aveva cominciato insieme alla sua compagna Francimar un lavoro con i Senza Terra e alcune comunità di afro discendenti. Rimasi affascinato da questa esperienza e, tornato in Italia, nel giro di un anno riuscii a farmi mandare in pensione potendo così decidere di cominciare un’esperienza di volontariato in Brasile. Dopo un paio di anni mi sono sposato con una brasiliana ed ora faccio un po’ il pendolare tra Italia e Brasile.

Quali sono i principali progetti che ha portato avanti in questi anni? 
Appena arrivato in Brasile sono subito entrato a far parte dell’associazione AACADE (Associazione di appoggio agli insediamenti e alle comunità afro discendenti) fondata da Gigetto (Luís) e sua moglie Francimar e ho cominciato a dare una mano soprattutto in quello che so fare meglio, la promozione e la comunicazione. Lavoriamo con piccole comunità formate da discendenti degli schiavi africani fuggiti dai latifondi durante, ma anche dopo, l’abolizione della schiavitù (1888). Si tratta generalmente di piccoli gruppi, prevalentemente da neri, che da sempre vivono ai margini della società, discriminati per il colore della pelle e quasi sempre abbandonati dal potere politico. Noi li aiutiamo nel processo di presa di coscienza della loro realtà e dei loro diritti, garantiti dalla nuova Costituzione del 1988 e facciamo da ponte con le istituzioni pubbliche affinché le politiche sociali a loro destinate arrivino veramente a destinazione. Attualmente lavoriamo con 38 comunità sparse in un territorio grande come Lombardia, Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta. Non è un lavoro facile perché quasi sempre la situazione di queste comunità (chiamate quilombos) è veramente drammatica ma anche perché il razzismo verso la popolazione nera in Brasile, anche se spesso mascherato, è molto radicato a tutti i livelli. Come dicevo, aiutiamo queste comunità sul piano istituzionale ma anche con progetti molto concreti come creazione di orti biologici, corsi di taglio e cucito, allevamento di animali da cortile, corsi di formazione per le donne… il tutto attraverso l’iniziativa del piccolo credito. Buona parte di questi progetti vengono realizzati grazie al contributo di associazioni e amici italiani. Nel frattempo ho cominciato una serie di progetti che gestisco direttamente. Tutto cominciò quando mi sposai e scoprii che mia moglie Francinete aveva da tempo in testa un’idea chiamata “Casas de leitura”, un progetto di promozione della lettura per le fasce più carenti della popolazione. Dopo alcune esperienze in alcune comunità delle periferie più problematiche di João Pessoa, decisi di applicare il progetto nelle nostre comunità quilombola. Fu così che, grazie all’aiuto di amici italiani e, soprattutto, dell’associazione Uniti per la Vita di Arese, abbiamo creato il progetto Escrilendo (Scrivere e leggere) che oggi è attivo nelle comunità del Matão, Matias e Pedra d’Água. Escrilendo aiuta i bambini di queste comunità a recuperare il gap di apprendimento dovuto all’insegnamento precario e molto deficitario che viene offerto dalle scuole che frequentano. Le animatrici le abbiamo scelte tra le ragazze del luogo che avevano terminato o stavano per terminare gli studi superiori. E proprio grazie a questa esperienza ben quattro su sette hanno avuto la possibilità di scriversi all’università, cosa semplicemente impensabile per tutte soprattutto per motivi economici. Il contributo che diamo per il loro impegno e l’aiuto che offriamo per la frequenza alle lezioni sta permettendo questo piccolo miracolo. Il nostro sogno è che, una volta terminati gli studi, possano diventare le maestre nelle scuole della loro comunità. Un altro progetto si chiama Fotógrafos de rua (Fotografi di strada). Utilizzando alcune macchine fotografiche digitali ho dato dei corsi di fotografie ai giovani e agli adolescenti di cinque comunità. Grazie alla fotografia hanno cominciato a guardare la loro realtà in un modo differente e, attraverso mostre fotografiche che abbiamo fatto nella capitale e a Campina Grande, seconda città dello stato, questi ragazzi hanno capito quanto è importante far conoscere la loro cultura e la loro storia, oltre a dare una valenza politica a questo tipo di azioni. Al di là di ogni aspettativa poi è stata la crescita della loro autostima.

Visto che siamo a inizio anno, obiettivi per il 2015? 
Nei prossimi mesi cominceremo una ricerca approfondita sulla storia di ogni gruppo e attraverso fotografie, interviste e altre iniziative creeremo in ciascuna comunità la casa della memoria. Attori saranno i giovani che coinvolgeranno adulti e anziani in modo da salvaguardare un patrimonio che altrimenti andrebbe perduto, consci che senza una conoscenza del proprio passato non ci può essere futuro. Stiamo anche esplorando la possibilità di costruire delle offerte di turismo sostenibile.

Quali sono le principali difficoltà che incontra nel lavoro quotidiano? 
La prima difficoltà è insita nella realtà stessa di queste comunità che a causa dell’isolamento e dei forti pregiudizi nei loro confronti, sono spesso le prime a non credere nelle loro capacità. Il cammino che facciamo insieme è fatto di tanti passi in avanti ma anche di tanti passi indietro. Bisogna avere molta pazienza e accettare che i loro ritmi siano differenti da quello che noi vorremmo. Poi, quando meno te l’aspetti, avvengono dei progressi incredibili e questo ti dà la forza e la voglia di continuare. Poi ci sono le difficoltà esterne: una società profondamente razzista che non accetta, o accetta molto malvolentieri, la diversità razziale e culturale, padroni di latifondi che non accettano il crescere della coscienza dei neri fino a ieri utilizzati come mano d’opera sfruttata e sottopagata, politici, soprattutto locali, abituati a comprare i voti per una manciata di soldi o concedendo piccoli favori e che vedono molto male i processi di emancipazione di queste comunità. Ci è capitato anche di essere oggetto di minacce, non sempre velate, da chi ci vede come il fumo negli occhi considerandoci i responsabili di questi cambiamenti.

Elisa Moro -Settegiorni 9 gennaio 2015

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